a Fausto, e a tutti coloro che hanno aiutato Firenze a rialzarsi.
Che cos’è la memoria?
Cerco di rispondere a questa domanda ogni giorno. Per chi non ha avuto la fortuna di ascoltare le storie del passato dai propri nonni la scoperta e la conoscenza della propria memoria percorre altre strade, più lunghe e tortuose ma non per questo meno belle. Mi sono innamorato presto delle storie e molto presto ho compreso il valore – e l’importanza – della memoria.
Un Paese senza memoria è un Paese morto, destinato al fallimento: per questo l’ho coltivata e alimentata ogni giorno con le vite degli altri, coi loro racconti, coi loro ricordi. Ognuno di noi è portatore di memoria e ognuno di noi ha il compito e il dovere di trasmetterla alle generazioni future, affinché dal trasferimento di questa conoscenza si origini la coscienza della società futura. Perché la memoria non è semplice ricordo sterile; la memoria è vita, ne è forse la sua espressione più alta.
Per questo a mio avviso la memoria è un antidoto: contro la retorica e l’appiattimento, un antidoto all’oblio. Per me il 4 novembre del 1966 e l’alluvione di Firenze erano date nel calendario del passato, un ricordo sbiadito nella storia del Paese. Ma mi sbagliavo. In molti sanno cosa è accaduto 50 anni fa a Firenze, ma sono davvero pochi quelli che sanno cosa sia successo veramente. Grazie all’esperienza della Blog Experience #Alluvione50 voluta da Fondazione Sistema Toscana in occasione delle celebrazioni del 50esimo anniversario dell’alluvione, ho avuto la possibilità di tornare a Firenze per 4 giorni a 50 anni di distanza dall’evento che mutò per sempre la storia della città.
Immerso, è proprio il caso di dirlo, nella memoria di Firenze, grazie a decine di eventi commemorativi ho cercato di immaginarmi quei giorni, quei fatti, per comprendere veramente cosa fosse successo per le strade di una delle città tra le più belle e amate del mondo.
Cercavo con lo sguardo le targhe sui muri, i nomi delle strade del centro, perché dietro ad ogni nome c’era qualcosa che avevo sentito poche ore prima e che mi aveva segnato e scosso nel profondo. Sei metri d’acqua, pensavo camminando per il centro della città: 6 metri d’acqua nel cuore di Firenze. Pensavo e cercavo di capire ma non ci riuscivo fino in fondo, perché non si può capire davvero cosa sia stata la furia distruttiva dell’Arno quel 4 novembre di 50 anni fa, se non si vede con i propri occhi e non si ascolta, non si sente la voce di chi c’era, di chi ha visto e sentito, di chi l’ha raccontata.

Sottopasso in Piazza dell’Unità Italiana nel novembre 1966 (sopra) e nel novembre 2016 | © foto di Fausto Braganti
Nemmeno all’epoca si riuscì subito a comprendere e ci volle che la voce del giornalista Marcello Giannini entrasse nelle case degli italiani in diretta, durante il telegiornale nazionale condotto da Zavoli: insieme alla sua arrivò, distinta potente e violenta, la voce dell’Arno. Una voce che gela il sangue ancora oggi, perché a sentirla si capisce che quello che stava accadendo era qualcosa di sconvolgente, che avrebbe segnato un vero spartiacque nella storia del Paese.
All’epoca in Italia il 4 novembre era festa nazionale, ma quel giorno l’Arno sembrava avere programmi diversi: era entrato in città come non faceva da molto e aveva deciso che quello era il giorno per riscrivere la storia della città e cambiare il corso delle sue vicende e di parte del Paese. Dopo l’alluvione di Firenze anche l’Italia non sarà più la stessa.

Il centro storico di Firenze nella notte del 4 novembre 2016
Mentre attraversavo a piedi il centro di Firenze per rientrare in hotel, nella notte tiepida di un 4 novembre profondamente diverso da quello di 50 anni fa, mi sono chiesto cosa fosse stato, veramente, l’alluvione del 1966. Stavo rincasando dopo una giornata intensa vissuta immerso nelle celebrazioni ufficiali per il 50° anniversario da quella immane tragedia che travolse – e sconvolse – Firenze e i fiorentini, ma che coinvolse in poche ore il mondo intero.
Nonostante tutto sentivo che mi sfuggiva qualcosa, come se il sentimento più vero e profondo fosse celato dietro all’atmosfera gioiosa delle manifestazioni ufficiali.
Guardavo sul volto quelle persone, anziani con gli occhi intensi e carichi di emozione che erano lì per ricordare, a loro stessi e al mondo, cosa accadde 50 anni fa a Firenze. Li osservavo e capivo che i loro occhi svelavano molto più di quello che le loro parole avrebbero potuto dire, rivelare, a chi li avesse intervistati, ascoltati, applauditi.
Il 1966 per me è molto difficile da collocare nello spazio: un tempo immane mi separa da quella data; così, per capire cosa fosse stato veramente l’alluvione del 1966 a Firenze, ho cercato di fare quello che ho imparato a fare in questi anni ascoltando le storie degli altri, le memorie private della gente comune conservate all’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano: perché c’è una sorta di sottile linea d’ombra, invisibile e spesso impenetrabile ad un primo sguardo, che separa la Storia ufficiale dalla storia privata, reale, frutto quest’ultima della testimonianza diretta e intima di chi racconta, chi ricorda fatti proprio perché li ha vissuti in prima persona e molto spesso li ha tenuti per sé a lungo, per una sorta di necessaria intimità o pudore.
Ma la mattina del mio 4 novembre è accaduta una cosa straordinaria, di cui conserverò memoria a lungo: ho incontrato e conosciuto un signore che 50 anni fa era lì, a Firenze, con la pala in mano e gli stivali ai piedi, a ripulire e far risollevare quella città: Fausto Braganti per me è stato un incontro doppiamente significativo, perché pur vivendo a Marblehead, vicino a Boston, Fausto è nato e cresciuto a Sansepolcro, proprio come me. Quel desiderio atavico di memoria familiare mi si era presentato all’improvviso in quel momento, in Piazza della Signoria a Firenze, davanti alla fontana del Nettuno. Già, Nettuno, il dio delle acque correnti e – solo in seguito – dio del mare. Era il mio segno.

Fausto Braganti in Piazza della Signoria a Firenze nel novembre 1966 (a sinistra) e nel novembre 2016 (a destra) | © foto di Fausto Braganti
Fausto oggi ha una folta barba bianca, un aspetto dolce e rassicurante, lo ascolteresti per giorni interi e quando inizia a parlare capisci che quella che sta per raccontarti è una storia straordinaria che per uno dei tanti casi della vita stai avendo il privilegio di ascoltare e di poter raccontare: studente di scienze politiche a Firenze, la sera del 3 novembre 1966 Fausto decide di tornare a Sansepolcro con la sua auto, per quel breve ponte di festa. Le notizie arrivavano frammentate da Firenze e si capirà solo dopo cosa sta realmente accadendo: Fausto mi confessa di essere andato a letto, quella sera, sotto il peso di una grande tristezza: si sentiva in colpa per non essere a Firenze e si sentiva come se avesse abbandonato la fidanzata, gli amici e la città stessa nel momento del maggior bisogno. Fausto, afflitto e preoccupato, trascorre domenica 6 novembre a fare scorte di ogni tipo, carica la sua piccola 850 rossa all’inverosimile e il lunedì mattina presto parte per Firenze.

Fausto Braganti a Firenze con la sua 850 nei giorni dell’alluvione | © foto di Fausto Braganti
La città pareva in stato d’assedio, ricorda; ogni collegamento con l’esterno interrotto, i militari tutt’intorno controllavano e bloccavano chi arrivava da fuori, ma Fausto, sottolinea coi suoi occhi intelligenti, era sicuro di riuscire ad entrare in città: i tanti viveri e medicinali stipati nella sua auto sono un lasciapassare sicuro. Così è infatti e Fausto è fra i primi a percorrere le strade di Firenze.

Il centro storico di Firenze nei giorni dell’alluvione del 1966 | © foto di Fausto Braganti
Mi spiega che oggi se ne parla poco, che a prevalere sono altri aspetti, spesso edulcorati, ma in quei giorni a dominare era soprattutto la confusione: con un velo di amarezza mi dice che le intenzioni di tanti erano meritevoli, ma spesso si perdevano nella direzione sbagliata, perché moltissime informazioni erano errate o peggio contraddittorie. Sorride quando racconta che nessuna bellissima ed eterea ragazza era arrivata – come ne La meglio gioventù – a portare panini al prosciutto, ma ricorda la sollecitudine con cui tutti stavano lavorando in mezzo al fango: c’era la consapevolezza che si stava salvando una parte, per quanto piccola, della nostra civiltà. È questa la cosa che più mi colpisce delle sue parole: salvare la nostra civiltà. È una cosa enorme, a pensarci oggi, un pensiero carico di nobiltà e sacralità: perché salvare quel patrimonio artistico e librario significava appunto conservare e preservare la nostra memoria, ciò che noi, come civiltà, eravamo stati fino a quel momento. Quando oggi ci si stupisce, davanti a disastri come il terremoto, che ci si preoccupi così tanto dei beni artistici, architettonici e culturali in genere, non ci si rende conto che questa preoccupazione grande e profonda è dovuta ad uno sguardo necessariamente alto e altro, che travalica le comuni esistenze e guarda al futuro della società – e dell’umanità – nella sua interezza. Perché in quei beni c’è racchiusa prima di tutto la storia di una Paese, la memoria di una comunità, di una civiltà e quindi la base per il suo futuro. Aspetti imprescindibili, strettamente connessi alla vita, nella sua espressione più alta.
Nessuno aveva chiesto di essere lì, racconta Fausto, ma tutti volevano esserci e volevano esserci ogni giorno, sporchi, infangati, sudati e stanchi. Erano lì perché avevano scelto d’esserci: tutti volevano salvare Firenze, cerca di farmi capire, era come una missione.

Piazza Santa Maria Novella a Firenze nei giorni dell’alluvione | © foto di Fausto Braganti
Per questo, anche, le sue parole diventano amare, cariche di delusione: siamo sotto Palazzo Vecchio e Fausto è contrariato, in qualche modo si sente tradito. Lui, come tanti, è arrivato a Firenze da molto lontano, per queste celebrazioni: è partito apposta dagli Stati Uniti, per essere presente nel giorno del 50° anniversario dall’alluvione; era qui anche 10 anni fa in occasione dei 40 anni, quando ricevette dal Comune di Firenze un vanghino, in ricordo di quei fatti.

Il vanghino ricevuto da Fausto per i 40 anni dall’alluvione
Mi spiega che insieme a decine di altri “angeli del fango” – etichetta che a lui non piace e non approva – gli è stato impedito di entrare in Palazzo Vecchio per le celebrazioni alla presenza del Presidente della Repubblica: il personale all’ingresso sosteneva che non ci fosse più posto, ma lui e gli altri vedevano giornalisti e politici arrivare ed entrare senza problemi. È stato un colpo duro per tutti loro che a distanza di 50 anni erano voluti tornare a Firenze per esserci, per portare con la loro presenza la propria testimonianza e riabbracciare quella città ferita, che anche grazie a loro è tornata a splendere.
Mi mostra una foto e in quel momento tutto mi è chiaro e non posso che condividere la sua amarezza: è una foto di quello stesso portone di Palazzo Vecchio dal quale oggi lo hanno tenuto fuori inspiegabilmente: l’ha scattata lui stesso nel novembre del 1966, pochi momenti dopo aver depositato nel cortile interno tutti i viveri e i medicinali che aveva portato da Sansepolcro con la sua 850 rossa, in soccorso della sua amata Firenze.

Persone in coda davanti al portone di Palazzo Vecchio dove si distribuivano viveri e medicinali – novembre 1966 | © foto di Fausto Braganti
Dalle sue parole traspare il senso più vero e profondo di cosa sia stato, per chi c’era e per chi venne a Firenze per aiutare la città a rialzarsi, quel novembre di 50 anni fa: una testimonianza scevra da sovrastrutture, lontana dalla retorica ufficiale.
Mi ha ricordato subito la memoria che per lunghi anni in Italia si è avuta della Resistenza, nei libri pubblicati e nelle testimonianze “ufficiali”; poi arrivò Fenoglio, che con parole asciutte e dirette mise il Paese di fronte a se stesso, spogliando quella memoria condivisa da una retorica opprimente e fuorviante.
Così, dopo aver ascoltato le parole di Fausto, mi sono accorto che nel suo sentimento si nasconde il senso più vero e profondo della memoria di quei giorni, di quei fatti: mi dice che l’evento al mattino gli è parso troppo politico, che ha avuto la sensazione che gli infangati (così preferisce chiamare “gli angeli del fango”) fossero lì quasi per caso, tanto da conferirgli una medaglia generica, senza nessun riferimento o data dell’evento. Si chiede cosa accadrà fra 10 anni, sicuro tuttavia che questa volta sceglierà di non esserci, dopo essersi visto chiudere quel portone fino a quel momento per lui così carico di significato: “Quello che è accaduto a Palazzo Vecchio – conclude Fausto – mi ha ricordato quanto successe in Normandia per le celebrazioni dei 50 anni dallo sbarco nel 1994: arrivarono in tanti – spiega ormai disilluso – delegazioni da tutto il mondo…e poi alla fine non c’era posto per i reduci, quelli che lo sbarco l’avevano fatto sul serio”.

Il centro storico di Firenze nel novembre 1966 | © foto di Fausto Braganti
Ecco, per me il senso vero e profondo della memoria di quegli anni e di quei fatti si è depositato in queste parole di Fausto, emblematica presa di coscienza di come, col passare degli anni, ci sia il rischio reale e fisiologico che si perda il riferimento più genuino alla nostra storia e alla nostra memoria.
Non dobbiamo commettere l’imperdonabile errore di dimenticare, ma col passare degli anni questo diventa possibile e fa parte dell’ordine delle cose, soprattutto in un Paese con la memoria corta come il nostro. Le celebrazioni vanno bene, se non si traducono in sterili autocelebrazioni; oggi gli amministratori non sono più quelli di 50 anni fa: si affacciano per la prima volta volti nuovi, che al tempo nemmeno erano nati. È importante dunque che si continuino ad ascoltare le voci e le testimonianze dei protagonisti diretti di quei fatti, perché sono loro che potranno ricordarci sempre chi siamo.
La memoria dev’essere un atto pratico, quotidiano: non possiamo limitarci a celebrarla, la memoria va esercitata e va attivata ogni giorno.
Perdere il passato significa perdere il futuro (Wang Shu)
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Grazie Fausto!
Fausto Braganti è una persona straordinaria: classe 1941 ha un suo blog (dedicato proprio alla memoria e che non a caso ha chiamato M’Arcordo), utilizza quotidianamente facebook, twitter e instagram e ha sempre la sua macchina fotografica al collo.
Ma soprattutto è una fonte inesauribile di memoria.
Rieccomi! Ma non lo aggiorni più il tuo blog?
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Hai perfettamente ragione…sono molto preso da alcuni progetti che sto seguendo e ho dovuto necessariamente lasciare indietro qualcosa, mi sono pure trasferito da poco, ma non vedo l’ora di tornare a scrivere!
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Anch’io non vedo l’ora di tornare a leggere un tuo post: il tuo talento come blogger (e come commentatore) non deve andare sprecato.
Colgo l’occasione per consigliarti questo film: https://wwayne.wordpress.com/2016/12/11/una-ragazza-adorabile/. Mi ha fatto spanciare dalle risate! 🙂 Grazie per la risposta! 🙂
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Grazie a te! E grazie del consiglio cinematografico…buona serata.
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Si, hai detto proprio tutto. Commovente e sentito.
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Grazie Gerlando, mi fanno molto piacere le sue parole.
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La ragionevole delusione del mio amico Fausto -dell’accoglienza-non accoglienza- degli “Infangati” nel 50° anniversario dell’alluvione di Firenze, fa parte della nostra storia: i meriti e la gloria, l’accaparrano sempre chi non ha faticato per averli. Ma credo che quando si trova un amico come Marco Pellegrine che ti ascolta, credendo e trascrivendo il tuo racconto, allegandovi le foto di quel tempo da te scattate, credo che sia più appagante che entrare nel Palazzo , con il rischio di ascoltare delle noiose parole di circostanza dette dal solone di turno che forse non aveva avuto niente a che fare con l’alluvione.
Grazie Fausto.
Grazie Marco.
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Marco, ho ben poco da aggiungere a quello che hai scritto, hai detto tutto. Il tuo modo di raccontare semplice e diretto rievoca non solo i fatti, ma soprattutto le emozioni, di certo le mie.
Adesso scrivendo questo commento sorrido. Più che soddisfatto sono contento; mi sento rassicurato che ci siano persone come te di gran lunga più giovani di me, capaci di tramandare la memoria, di renderla nuovamente viva, attuale.
La catena culturale che ci unisce, anche se lontani, non deve rompersi, ognuno di noi può aggiungere il suo anello.
Nel 1965 ci furono grandi commemorazioni ricordando l’inizio della Grande Guerra, erano passati 50 anni. Allora quel numero mi parve enorme, mezzo secolo! C’erano ancora molti reduci e ne conoscevo molti e quando potevo chiedevo loro di raccontarmi la loro storia.
Ora quel mezzo secolo è passato per me, ma come è successo?
Io sono stato solo nel fango per poche settimane, molto meglio che essere stato in trincea per anni, tutto è relativo.
Adesso posso solo ricordare sperando che la memoria del lavoro dei volontari oggi settantenni che allora accorsero possa essere d’esempio alle generazioni a venire.
La memoria non è passato, la memoria ha un valore solo quando ci aiuterà, speriamo, nel fare le scelte migliori in futuro.
GRAZIE!
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Caro Fausto, grazie per queste tue bellissime parole. È vero: è bello che ci siano giovani attenti a questi temi ma diventa naturale quando la memoria viene tramandata con passione e sensibilità profonde e di questo dobbiamo essere grati a persone come te.
Hai ragione, forse è il sentirsi rassicurati che più ci colpisce e ci fa piacere. Rassicurati a vicenda che, nonostante la distanza temporale, ognuno aggiunga alla catena della memoria il proprio anello.
Grazie ancora di tutto e un grande abbraccio, al di là dell’Atlantico.
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